sabato 24 aprile 2010

La "resistenza taciuta" delle donne partigiane

Chi mi conosce bene sa quanto costante e forte sia il mio impegno per una sempre maggiore presenza delle donne in tutti gli ambiti decisionali, in politica, nella società, in economia, nelle amministrazioni.
Ed è proprio alle donne che è dedicato il mio particolare pensiero per la celebrazione del 25 Aprile, Festa della liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista.

Voglio ricordare le donne della “resistenza taciuta”, quelle donne che, chiamate dalla storia a combattere in un mondo in sfacelo, si esposero senza esitare a tutti i rischi della guerra partigiana.

E voglio aprire questa breve considerazione con dei numeri: 35.000 partigiane nei gruppi combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa, 638 fucilate o cadute in battaglia, 1750 ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 deportate in Germania.Tuttavia, questi numeri non sono sufficienti a dare la vera dimensione del ruolo delle donne partigiane.
La maggior parte di loro non vollero impugnare le armi, simbolo del potere maschilista, ma presero parte a pieno titolo alla Resistenza civile e si distinsero dagli uomini per i modi e la qualità della loro partecipazione.
Oggi quelle loro azioni possono essere senza dubbio definite come tecniche non violente di opposizione al regime, allora si trattava molto semplicemente di portare e distribuire le provviste e gli indumenti ai partigiani, ma anche il materiale di propaganda clandestino, le armi e le munizioni, organizzare gli scioperi nelle fabbriche, curare i feriti, identificare i cadaveri, assistere i familiari dei caduti, dare un rifugio ai fuggitivi.

Il loro operato fu tanto più eccezionale e di portata storica se si pensa che quelle donne, lo ricordiamo, siamo negli anni ’40, erano cittadine di serie B. Non votavano, non avevo veri e propri diritti ed erano costrette a sottomettersi non solo ad un regime politico totalitario, ma a una cultura sociale fortemente maschilista. Tuttavia negli anni della guerra, e durante la Resistenza in particolar modo, fecero per bene quello che dovevano fare.

Davvero una resistenza sofferta e taciuta, quindi.
Delle femministe ante litteram, altro che Mary Quant e la minigonna!
E’ grazie anche a queste donne se io, se noi donne italiane, abbiamo la libertà di fare tutto quello che quotidianamente facciamo.

La mia lettera al nuovo Presidente della Regione Basilicata


Gentile Presidente De Filippo,

i segnali di innovazione da lei espressi con la formazione della nuova Giunta Regionale della Basilicata, segnali che vanno chiaramente nella direzione della democrazia paritaria e dell’eliminazione degli sprechi, per poter reinvestire il ricavato nell’aiuto alle fasce più deboli della comunità, sono davvero confortanti in un meridione così martoriato da amministrazioni corrotte e che a tutto pensano tranne che al bene della collettività.

La Rete delle Rose Rosse, che rappresento come Responsabile per la Campania, è un movimento aperto a tutte le anime della sinistra e ha come più alto principio ispiratore la necessità di ripristinare la legalità, la giustizia, la trasparenza come unico volano di sviluppo economico, politico, sociale, amministrativo di ogni tipo di comunità. Ed è proprio in virtù di questo principio ispiratore che le scrivo, per complimentarmi con lei per la scelta fatta e per invitarla a proseguire su questa strada, che è, secondo noi, l’unica per far tornare il Sud, e l’Italia tutta, ai livelli di sviluppo che merita, in tutti i settori su citati.

La Rete delle Rose Rosse seguirà questo cammino innovativo intrapreso dal Presidente della Regione Basilicata e lo citerà ad esempio di quei comportamenti virtuosi che contribuiscono non solo allo sviluppo delle comunità ma anche al riavvicinamento dei cittadini alla buona politica e alla buona amministrazione. Inoltre, se lei fosse d’accordo, io stessa sarò disponibile ad incontrarla per parlare di persona di questa iniziativa, ma anche di alcune aggiunte che sarebbero auspicabili, come la riduzione degli stipendi di consiglieri ed assessori, della trasparenza nell’affidamento degli incarichi nelle società miste, delle consulenze da non gonfiare, nonché dei risultati a medio e lungo termine che la sua iniziativa, ne siamo sicuri, otterrà.

La ringrazio dell’attenzione che so vorrà dedicarci e la saluto cordialmente.

Elvira Santaniello
Responsabile Campania Rete delle Rose Rosse

giovedì 22 aprile 2010

Nasce oggi il Presidio di legalità e giustizia di San Giorgio del Sannio!!!

Con il mio intervento di oggi a difesa della legalità, della trasparenza e della giustizia, per il bene e lo sviluppo della comunità, nasce il Presidio di legalità e giustizia di San Giorgio del Sannio!!!


Qui di seguito il testo:

La Rete delle Rose Rosse, rappresentata sul territorio sannita da Elvira Santaniello, Responsabile per la Campania,

in riferimento al Centro Polifunzionale di Arte, Cultura e Spettacolo di San Giorgio del Sannio, la cui importanza per la comunità sangiorgese veniva già riconosciuta nel lontano 1988, anno in cui fu affidato il primo incarico di progettazione, ma che a tutt’oggi attende ancora l’inizio dei lavori,

chiede al Sindaco di San Giorgio del Sannio

di fare pubblicamente chiarezza sui fatti che sono alla base della mozione di sfiducia presentata dal consigliere di minoranza Carpenella relativamente all’affidamento dell’incarico di progettazione del suddetto Centro Polifunzionale e sulle presunte irregolarità della delibera assunta nel dicembre 2009 che confermava la precedente del 1988.
Tale richiesta di chiarezza da parte della Rete delle Rose Rosse è motivata non già dalla volontà di dar vita ad una ulteriore manfrina politica e portarla avanti sulla stampa locale, come sta facendo la minoranza consiliare di destra, bensì dalla necessità di rispettare quelli sono i principi ispiratori sui quali si basa l’esistenza stessa della Rete ovvero:

•Il bene e lo sviluppo della comunità paese, in questo caso l’esigenza che venga realizzata al più presto l’opera, visto che è decisamente utile alla comunità sangiorgese

•L’assoluto rispetto della trasparenza degli atti amministrativi e delle decisioni assunte dagli amministratori stessi nonché l’imprescindibile rispetto della legalità a qualsiasi livello

•L’assoluta distanza da prebende, interessi privati e clientelismi (che si configurerebbero, invece, con il reitero dell’incarico di progettazione come assunto nella mozione del consigliere di minoranza)

La Rete delle Rose Rosse è certa che l’Amministrazione di San Giorgio del Sannio non mancherà di riscontrare con la massima puntualità e sensibilità le aspettative qui espresse.

venerdì 16 aprile 2010

Il partito federale non è la soluzione ai problemi del PD nè tanto meno è un bene per la sinistra tutta

da l'Unità di oggi 16 aprile 2010

Il territorio non basta ci vogliono idee di Giuseppe Provenzano

"Dopo queste elezioni regionali, il timore che la profezia di Gianfranco Miglio sia sul punto di avverarsi è ancora più forte: un’Italia divisa, nelle sue versioni estreme, «Nord alla Lega, Sud alle mafie», o in quelle più edulcorate «Nord alla Lega, Sud agli eredi della Dc», e un’Italia di mezzo a fare da cerniera debole, minacciata dall’avanzata dell’una e dell’altra Italia. Con un blocco sociale raccolto nell’alleanza Pdl e Udc che arriva fino al Lazio meridionalizzato, e un’avanzata virulenta della Lega, che ormai ha superato l’Appennino tosco-emiliano. C’è una secessione promessa, ma c’è anche una secessione già avvenuta, che s’è inventata popoli reinventando populismi, e che il Partito del Sud, assai maldestramente, finirà per assecondare, finirà di completare, in un misero finale della seconda Repubblica. La formulazione politica della competizione territoriale, in quadro istituzionale aperto a derive separatiste, finirà per allargare i divari, radicalizzare le disuguaglianze.
Ora il Pd vuole reagire. Deve, ma come? Col partito federale, si dice. Che riparta dai territori, che si “radichi” nel territorio. Bene, ma bisogna intendersi sulle parole, evitare un’insopportabile ecolalia, liberarsi della mitizzazione della militanza leghista che si sta facendo in questi giorni sciagurati. D’altra parte, non sembra un’idea geniale – al risveglio dalla sbronza primarista – affidare tutto ai segretari regionali, come se il problema della formazione della leadership non si riproponesse tal quale a tutti i livelli. Lo sanno, i proponenti, come si svolgono i congressi in molte parti d’Italia? Con tessere prepagate, circoli ridotti a seggi elettorali, nessuno spazio per un confronto di argomentazioni e idee. In certi territori, per dire, bisognerebbe “sradicare” più che “radicarsi”, e far somigliare il partito alla società da cambiare, e non a quella così com’è, con le sue ingiustizie, i suoi egoismi e le sue miserie.
Perché è sull’idea da proporre al territorio che si misura il successo della presenza: non sul numero e l’allestimento dei gazebo, ma sul messaggio da veicolare nelle piazze. Su questo, vince la Lega. Su questo, dovrebbero sfidarsi nuove e vecchie forze, di tutte le età e le geografie: discutendo dal Sud al Nord di Nord e Sud, e del mare – sempre più piccolo, sempre più profondo – in mezzo. Ritrovando un luogo, nel partito, che la balcanizzazione correntizia e la feudalizzazione nei rapporti centro-periferia ha negato. E sapendo che, al punto in cui è malridotto il Paese, il termine “federale” dovrebbe riacquistare un accento originario: tendere verso ciò che unisce e tiene insieme. Altrimenti, passata l’euforia regionalista, il secessionismo condurrà alle differenze tra province e comuni, fino ad arrivare alla differenza sociale tra individui, che l’ideologia del territorio riesce appena a malcelare.
"


Questo articolo, insieme alla bella faccia del liberaldemocratico Clegg che ha stravinto il primo confronto TV tra i maggiori leaders politici inglesi e insieme anche all'analisi del voto alle regionali francesi vinte dalla sinistra con un'ampia coalizione e con il grandissimo contributo di Europe Ecologie di Daniel Cohn-Bendit, mi rendono ancora più convinta della mia tesi e ancora più tenace nel diffonderla:

E' assolutamente necessario, e lo è ORA non in futuro, abbandonare l'idea dei partiti tradizionali ormai incancreniti dai clientelismi, dai personalismi dei leader o presunti tali e dai giochi di potere.
E' di fondamentale importanza dare vita ad una struttura aperta ed elastica, che non dipenda dai partiti, che rispetti la pluralità e la singolarità delle sue componenti e che riesca a colmare quell'enorme gap che si è venuto a creare negli anni tra società e politica.
Insomma, bisogna dare vita ad una sorta di "biodiversità culturale e politica" all'interno della sinistra, come scrive Cohn-Bendit.

E' necessario RIPOLITICIZZARE LA SOCIETA' CIVILE E SOCIALIZZARE LA SOCIETA' POLITICA e la Rete delle Rose Rosse (che ho contribuito a fondare e che sto provando a far crescere anche attraverso questo salto di qualità non di poco conto), nata come Rete del Rispetto, delle Regole e del Rinnovamento non può non considerarsi come luogo privilegiato in cui far crescere questa nuova dimensione della politica italiana moderna.

mercoledì 14 aprile 2010

«Il Novecento è finito La sinistra si svegli» Intervista a Daniel Cohn-Bendit

«Per immaginare il futuro della sinistra non conta tanto stabilire da dove veniamo, ma dove vogliamo andare. Non è importante se uno è ecologista, socialista o comunista, la stagione dei partiti è finita in ogno caso. Penso che oggi non abbiano più senso né i partiti-azienda né i partiti-macchina: credo che dovremmo tutti immaginarci qualcosa di diverso, inventare una cooperativa politica, capace di tradurre una tendenza in strategia. E’ necessario ripoliticizzare la società civile e, contemporaneamente, civilizzare la società politica».

Daniel Cohn-Bendit questa sua formula la va ripetendo da tempo, già da prima delle recenti elezioni regionali che hanno visto la formazione di Europe Écologie, di cui è stato uno dei fondatori, raccogliere il dodici e mezzo per cento dei consensi, dopo che alle europee del 2008 aveva toccato il sedici.
Figlio di ebrei tedeschi rifugiatisi in Francia durante il nazismo, Cohn-Bendit è stato uno dei protagonisti del Maggio ’68 parigino. Approdato al movimento dei Verdi è stato eletto nel 1989 al consiglio comunale di Francoforte, dove è diventato responsabile per gli affari multiculturali. Dal 1994 è deputato europeo. La sua proposta per la costruzione di una nuova sinistra è stata raccolta nel volume Che fare? pubblicato recentemente da Nutrimenti (pp. 144, euro 12.00).

All’indomani delle recenti elezioni regionali francesi lei ha ribadito un tema su cui sta riflettendo da tempo, quello della fine dei vecchi partiti novecenteschi. Ci può spiegare di che si tratta?
E’ la forma tradizionale di organizzazione dei partiti, così come si è andata definendo nel corso del Novecento, che penso debba essere messa in discussione oggi. Allo stesso modo è un parte del bagaglio ideologico della sinistra, ma anche della destra, che deve essere rivisto: in particolare tutto ciò che è legato all’idea che basti la semplice crescita economica per risolvere ogni problema di redistribuzione della ricchezza e di uguaglianza sociale. Credo che in questo nuovo millennio non si possano più affrontare le cose in questi termini, del resto le nuove povertà e le nuove esclusioni che crescono proprio nei paesi più ricchi e sviluppati sono lì a dimostrarlo.

In quest’ottica, quale percorso auspica per la sinistra?
C’è bisogno che tutta la sinistra si interroghi in modo nuovo, al di là delle diverse sensibilità che esprime attualmente: dai socialdemocratici alla sinistra radicale fino a ciò che io definisco come una nuova posizione politica emergente, vale a dire quella incarnata dall’ecologia. Si dirà che l’ecologia non rappresenta più una novità dell’ultima ora, eppure credo che continui a sfidare l’identità più “tradizionalista” delle sinistre, le loro storie e le loro forme di presenza e azione nella società, il loro stesso modo di fare politica. Ecco, intanto si potrebbe ripartire da questa sfida che mi sembra molto interessante e, potenzialmente, prolifica.

Lei ha detto che i partiti sono morti e che la forma di aggregazione a cui pensa è quella della cooperativa: ma cosa rappresenta una coop in politica?
Parlare di “cooperativa” riguardo alla politica significa un po’ tornare a una parte del nostro patrimonio politico, quella rappresentata dalle pratiche e dall’idea dell’autogestione. Io ne parlo per indicare la ricerca di forme di cooperazione politica che sappiano sottrarsi alla solita “macchina della politica” gerarchizzata e sempre pronta a strumentalizzare la disponibilità e la passione dei militanti. Penso a una “cooperativa politica” dove ciascuno conta per quello che fa, e ogni elettore può far pesare il suo voto, senza che su tutto questo si produca la solita formazione di stati maggiori e di funzionari. Se oggi c’è qualcosa di nuovo che si sta mettendo in moto nella società, non si deve fare l’errore di affidare all’ennesimo “nuovo” partito questa dinamica: si deve immaginare una forma nuova che rispetti la pluralità e, al contempo, la singolarità delle sue componenti.

In “Che fare?” ha scritto che solo questa “nuova politica” potrà cogliere appieno le trasformazioni avvenute nella sfera produttiva e il diffondersi di quel capitalismo cognitivo che sfrutta ogni forma di relazione umana e di sapere. In quale modo potrà avvenire?
Diciamo che la società cognitiva in cui siamo immersi ci consente di immaginare anche nuove forme per l’organizzazione politica, per esempio utilizzando la rete, dove gli scambi sono immediati e privi di “gerarchia”. In questa prospettiva, di una società più libera e aperta, possiamo immaginare che proprio il nuovo ruolo assunto dal sapere ci indirizzi verso il superamento delle fondamenta stesse del capitalismo.

Oggi in Europa non ci si misura solo con la crisi delle sinistre, ma con una potente ventata di destra, se non una vera e propria Rivoluzione Conservatrice che accompagna e interpreta una ristrutturazione economica e sociale. L’ultimo paese da cui è venuto un tale segnale è l’Ungheria dove si è votato nel weekend. Cosa ne pensa?
Intanto, proprio in Ungheria si è assistito alla spettacolare crescita dell’estrema destra razzista e antisemita e della nuova destra neoliberale, al crollo della socialdemocrazia locale, proveniente daggli ambienti postcomunisti, ma anche dall’affermazione, ed è la prima volta in un paese dell’Est, di una forza ecologista di sinistra che ha raccolto circa il sette per cento dei consensi. Quindi anche qui si misurano più o meno le stesse tendenze che vediamo all’opera in Italia o in Francia o in altri paesi più ricchi e organizzati. L’ecologia politica emerge come la migliore risposta alla deriva autoritaria neoliberale, quando non apertamente venata di fascismo, che si sta sviluppando nelle nostre società. Di fonte alle inquietudini sorte nell’ambito delle società globalizzate le due ipostesi sono in campo: personalmente considero l’ecologia la vera alternativa alle spinte reazionarie.

Quindi, come uscire dalla crisi sociale e politica contrastando le spinte regressive e razziste che emergono un po’ ovunque in Europa?
Bisogna mettere la società davanti alle proprie responsabilità. Alla crisi legata alla globalizzazione e alle forme di funzionamento del capitalismo, si può rispondere con l’individualismo generalizzato - in Italia avete un’ottima formula, quella di qualunquismo, per descrivere questa tendenza - incarnato ad esempio dalla figura di Silvio Berlusconi, oppure con la costruzione di una nuova solidarietà. E’ questo il vero tema che fa da sfondo al dibattito che si è aperto nella sinistra europea: un altro modo di fare e vivere la politica e un’innovazione potente nel linguaggio come nelle proposte può cercare di far pendere le nostre società verso lo spazio di una nuova solidarietà, piuttosto che in quello dell’individualismo dove crescono le nuove destre e il razzismo.

Ci sono delle nuove parole d’ordine per spiegare tutto ciò alle persone?
Non è con le parole d’ordine che si possono convincere le persone, ma con una nuova credibilità nel proprio comportamento politico. E soprattutto con una nuova politica


[fonte Liberazione.it martedì 13 aprile 2010]

La mia lettera ad amici e simpatizzanti della Rete delle Rose Rosse

Caro amico, cara amica,

la Rete Interregionale delle Rose Rosse si sta trasformando: da larva diventa farfalla e apre le sue ali fino ad abbracciare tutte le forze buone della sinistra italiana da quella moderata a quella radicale.

Abbandona dal suo nome e dal suo logo il riferimento diretto al Partito Democratico, in seno al quale è nata e che, comunque, non rinnega come luogo di nascita, e si prepara a diventare un movimento molto più ampio, aperto a tutti quegli uomini e donne che si sentono di sinistra e che vogliano impegnarsi per la realizzazione concreta della legalità e della giustizia attraverso il rispetto delle regole ed un concreto ed effettivo rinnovamento della classe politica e dirigente italiana.

La Rete Interregionale delle Rose Rosse chiama a raccolta tutti quanti, amici, iscritti, simpatizzanti, e li invita a riconfermare la propria adesione rispondendo a questo messaggio e ad esprimere la propria opinione sul cambiamento in atto.
Ci servirà a ricompattarci e a segnare la linea di partenza per questo nostro viaggio verso il progressivo riappropriarci delo senso del bene comune e della società civile.

Elvira Santaniello
Responsabile Campania Rete Rose Rosse

martedì 13 aprile 2010

La vera storia delle riforme istituzionali

Di fronte alla platea degli industriali Berlusconi non si è limitato a parlare di economia e ha colto l'occasione per rilanciare il tema delle riforme, in particolare nel campo del fisco e della giustizia. sull'assetto istituzionale ha ricordato che la Costituzione attribuisce tutti i poteri al Parlamento mentre il governo non ne ha nessuno: «I padri costituenti - ha detto Berlusconi - hanno definito un assetto istituzionale che dà tutti i poteri alle assemblee parlamentari: l’esecutivo non ha nessun potere nel nostro sistema costituzionale». La riforma costituzionale, ha aggiunto, andrà affrontata con il contributo di tutti ma l'orientamento della maggioranza è per una riforma semipresidenziale sul modello francese con però l'elezione contemporanea del Parlamento e del presidente del consiglio, per evitare eventuali problemi di colori diversi e coabitazioni forzate come avvenuto in diverse legislature in Francia.

Vediamo un pò, per amore di chiarezza, cosa significa Semipresidenzialismo alla Francese.
Secondo Wikipedia:
In una repubblica semipresidenziale, il governo si trova a dipendere dalla fiducia di due organi designati da due differenti consultazioni elettorali, il Presidente della Repubblica e il Parlamento. Il Primo Ministro viene perciò nominato dal Presidente, ma necessita, insieme al resto del suo esecutivo, della fiducia parlamentare.

Questa forma di governo è caratterizzata dai seguenti punti:
- l'elezione del Presidente della Repubblica avviene con voto popolare distinto ed autonomo rispetto a quello del parlamento;
- il potere esecutivo è condiviso con il Primo Ministro che però può essere scelto e revocato dal capo di Stato;
- il primo ministro ed il governo possono essere sfiduciati dal parlamento e revocati dal presidente; quest'ultimo non è ovviamente sfiduciabile
- lo scioglimento del parlamento da parte del Presidente della Repubblica avviene nei limiti costituzionali.

Il termine semipresidenzialismo, coniato nel 1978 dal politologo Maurice Duverger, può trarre in inganno, in quanto tale forma di governo non è semplicisticamente da intendersi come un presidenzialismo attenuato: mettendo da parte i periodi di coabitazione, in questo sistema il Capo dello Stato gode di alcuni poteri che non vengono invece accordati nel modello americano, come il diritto di consultazione popolare referendaria o l'iniziativa legislativa o lo scioglimento delle Camere. Gli obiettivi di questa forma di governo sono la diminuzione della rigidità del sistema presidenziale, senza i problemi legati alla partitocrazia che sovente sorgono quando non si raggiunge una maggioranza forte in un sistema parlamentarista. Questo sistema fa sì che il presidente abbia la possibilità di indirizzare politicamente il governo e di non essere solo un garante al di sopra delle parti.


Ma all'Italia cosa serve con urgenza?
Un Presidente della Repubblica il cui motto sia "ghe pensi tutto mi!" oppure di uscire dalla crisi che è reale e concreta e non psicologica come invece ci vogliono fare credere?

La faccia della sinistra deve necessariamente e assolutamente cambiare per poter tornare a far breccia nei cuori della gente!
E' necessario, anzi indispensabile, che ritorni al centro di un programma unico delle sinistre il concetto del bene comune, del bene dello Stato e non del profitto del singolo, il concetto della legalità, del diritto, della società civile.
E' palese che questo modello socio politico è molto meno appetibile e molto più di difficile da realizzare rispetto alla fantasmagoria del tutto e subito offerta dalla visione sociale ed economica del consumismo, ma il cambiamento vero sta proprio in questo, nell'accettare la sfida della del percorso più duro e tortuoso e nel farlo subito, adesso, altrimenti si rischia che sia davvero troppo tardi.

Qualche tempo fa, parlando, tra il serio ed il faceto, con l'amico Paolo De Cesare, e riferendoci alla bagarre interna del PD tra primarie, capibastone, clientelismi e spartizioni, attaccamento alle poltrone, etc, si diceva che sarebbe stato necessario diventare "TALEBANI dello Statuto"... questa espressione può, anzi, secondo me deve, essere senza dubbio alcuno mutuata in "TALEBANI DELLA LEGALITA', DEL DIRITTO E DELLA SOCIETA' CIVILE".
Io la mia battaglia di civiltà l'ho già iniziata!

mercoledì 7 aprile 2010

“Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”

Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, pp. 9-20

Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”.
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate. la timidezza
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva.
Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto.
Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla.
Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sè. Gli operai poi non se ne parla.
Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento.
Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro.
Forse non è nè viltà nè eroismo. È solo mancanza di prepotenza.
I montanari
la pluriclasse
Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto.
È il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini.
scuola dell’obbligo
Finite le elementari avevo diritto a altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola media. Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte di soldi e poi era stato respinto come un cane.
Ai miei poi la maestra aveva detto che non sprecassero soldi: “Mandatelo al campo. Non è adatto per studiare”.
Il babbo non le rispose. Dentro di sè pensava: “Se si stesse di casa a Barbiana sarebbe adatto”. Barbiana
A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”.
Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava per arrendersi. Poi seppe che ci andava anche un ragazzo di S. Martino. Allora si fece coraggio e andò a sentire.
il bosco
Quando tornò vidi che mi aveva comprato una pila per la sera, un gavettino per la minestra e gli stivaloni di gomma per la neve.
Il primo giorno mi accompagnò lui. Ci si mise due ore perchè ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a farcela in poco più di un’ora.
Passavo vicino a due case sole. Coi vetri rotti, abbandonate da poco. A tratti mi mettevo a correre per una vipera o per un pazzo che viveva solo alla Rocca e mi gridava da lontano.
Avevo undici anni. Lei sarebbe morta di paura. Vede? Ognuno ha le sue timidezze. Siamo pari dunque.
Ma solo se ognuno sta a casa sua. O se lei avesse bisogno di dar gli esami da noi. Ma lei non ne ha bisogno. i tavoli
Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Nè cattedra, nè lavagna, nè banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava.
D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava.
Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.
il preferito
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.
Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè non aveva capitò, gli altri non andavano avanti.
la ricreazione
Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica.
Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che veniva a visitarci faceva una polemica su questo punto.
Un professore disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”.
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabellone.
Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”.
i contadini nel mondo
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla.
Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su dieci la pensano esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa.
Tutta la vostra cultura è costruita così, come se il mondo foste voi.
ragazzi maestri
L’anno dopo ero maestro. Cioè lo ero tre mezze giornate la settimana. Insegnavo geografia matematica e francese a prima media.
Per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre la laurea.
Se sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa fare scuola come me. politica o avarizia
Poi insegnando imparavo tante cose.
Per esempio ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.
Dall’avarizia non ero mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare né agli altri né a me stesso. Mi toccava esser generoso anche quando non ero.
A voi vi parrà poco. Ma coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a farsi strada.
I ragazzi di paese
contorti
Dopo l’istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche ragazzi di paese. Tutti bocciati, naturalmente.
Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose.
Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio.
Il maestro per loro era dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro.
il galletto
Anche nel sesso gli stessi sotterfugi. Credevano che bisognasse parlarne di nascosto. Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio.
Comunque sul principio era l’unica materia scolastica che li svegliasse. Avevamo un libro di anatomia. Si chiudevano a guardarlo in un cantuccio. Due pagine erano tutte consumate.
Più tardi scoprirono che son belline anche le altre. Poi si accorsero che è bella anche la storia.
Qualcuno non s’è più fermato. Ora gli interessa tutto. Fa scuola ai più piccini, è diventato come noi.
Qualcuno invece siete riusciti a ghiacciarlo un altra volta. le bambine
Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente.
È razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori.
Sandro e Gianni
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Nè l’uno nè l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi solo perchè noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. È stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. Sandro se ne ricorderà per sempre. Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no. la Piccola Fiammiferaia
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma.
Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perchè il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose restano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani.
Per esempio in prima gli avreste riletto per la seconda o terza volta la Piccola Fiammiferaia e la neve che fiocca fiocca fiocca. Invece in seconda e terza leggete roba scritta per adulti.
Gianni non sapeva mettere l’acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale.
Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull’ultima guerra si teneva quatt’ore senza respirare.
A geografia gli avreste fatto l’Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale.
non ti sai esprimere
Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e prima. A giugno il “cretino” si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l’odio per i libri.
Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi in seguito a fargli amare anche il resto.
Ma agli esami una professoressa gli disse: “Perchè vai a una scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?” “…..”.
Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere.
Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avete buttato fuori di scuola l’anno prima.
Bella cura la vostra.
senza distinzioni di lingua
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: “Non si dice lalla, si dice aradio”.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
“Tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di lingua”. L’ha detto la Costituzione pensando a lui.
burattino obbediente
Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. E Gianni non è più tornato neanche da noi.
Non non ce ne diamo pace. Lo seguiamo di lontano. S’è saputo che non va più in chiesa, nè alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato a ballare, la domenica allo stadio.
Voi di lui non sapete neanche che esiste. l’ospedale
Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete.
L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.
E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar da pazzi.
Meglio passar da pazzi che esser strumento di razzismo.

lunedì 5 aprile 2010

Un contributo al cambiamento partendo dall'educazione dei bambini: l'opera di Gianni Rodari

C’è una dimensione ludica negli scritti di Rodari, capace di creare uno splendido connubio fra favola e pedagogia.

C’è pedagogia applicata in Rodari, nel senso che essa finisce per permeare, sommessamente, situazioni e contesti dei suoi racconti. La fantasia, fattore dominante, la tiene a bada, ma non la sopprime mai definitivamente. Rodari amava raccontare ai bambini storie senza finale, che essi stessi dovevano sviluppare e concludere. In questo modo egli faceva, spontaneamente, educazione alla creatività, creando proficui stimoli alla fantasia e all’immaginazione.

Rodari sapeva che l'infanzia è costitutiva di un processo in cui il bambino cresce, con i suoi tempi. Egli sapeva anche che il bambino, tutt’altro che avulso dalla realtà, impara giocando. Questo obiettivo era rafforzato dalla sua intensa esperienza di maestro elementare, di educatore che si cimentava sul campo, attuando i migliori precetti della pedagogia.

Ed ecco che la favola tocca la realtà quotidiana, i problemi sociali e familiari, in chiave ironica e ludica, attraverso l’immaginazione più viva.
Perfino dai vizi dell’umanità possono scaturire finali divertenti e inaspettati.
L’immaginazione deve avere il suo posto nell’educazione, per far sì che la favola diventi strumento di conoscenza della realtà.

In Rodari si compie così uno straordinario connubio fra favola e pedagogia, perché era davvero convinto che tutto questo potesse contribuire ad educare la mente:

I bambini capiscono più di quello che noi sospettiamo (…)”.

Rodari sapeva bene che:
valorizzare la fantasia e la creatività infantile significa creare le condizioni per uno sviluppo armonico ed equilibrato della personalità.

La fantasia fa parte di noi
come la ragione:
guardare dentro la fantasia
è un modo come un altro
per guardare dentro noi stessi


scriveva Rodari e la sua grande novità è proprio questa: " Bisogna fare l’uomo a partire dal bambino" , bisogna fare di ognuno una individualità, un intellettuale libero, critico. A partire dall’infanzia.

Si apre allora un'autostrada per la nostra riflessione: quanto è attuale il pensiero di Rodari? .
Faccio mia una affermazione di Franco Cambi (uno dei più autorevoli e operosi specialisti di teoria e di storia dell'educazione dell'Italia d'oggi):

"Siamo in un tempo che vede disfrenarsi l’affermazione della tecnologia. Noi siamo sempre più animali tecnologizzati. La tecnologia si sta impadronendo anche della coscienza, del pensiero, quindi, di quel luogo dove gli anticorpi al tecnologico potevano essere radicati. Raffaele Simone [uno dei maggiori studiosi europei di linguistica e filosofia del linguaggio e della cultura] lo ha detto con grande precisione nel suo volume “La terza fase”. Stiamo entrando in una terza fase del pensiero che non ci deve rasserenare. Pensiero sempre più linearizzato, semplificato, ridotto secondo gli schemi dell’inferenza logica. E la fantasia? Non ci serve più mica tanto! Nel tempo dello sfrenarsi della tecnologia non abbiamo bisogno di pensiero fantastico che guardi oltre. Stiamo entrando in una fase di pensiero computerizzato che ha al centro la logica del computer, che è una logica lineare, conformata e conformatrice. C’è attualità allora per Rodari? Io direi: c’è proprio nella sua inattualità. Perché ci parla di un mondo inattuale, e perciò attualissimo! Noi rischiamo di perdere la capacità di costruire anticorpi in una società che è sempre più convergente, sempre più conformistica, sempre più dominata dai mezzi di informazione di massa che linearizzano perfino le strutture del pensiero in modo da vietare che si costruiscano anticorpi rispetto alla realtà del presente.
Quindi, Rodari ci è ancora un Maestro indispensabile
!"

(Il contributo integrale di Franco Cambi, dal titolo "Rodari è "utile" ancora?" è disponibile qui)

N. B. : il prossimo 10 aprile ricorrerà il trentennale dalla morte di Rodari...qualcuno se ne ricorderà?
io sì e in tempi non sospetti!

Cambiamento è anche liberare la fantasia e i sentimenti

Il cambiamento è soprattutto nei nostri cuori e nelle nostre teste...insegniamo ai bambini, ai nostri figli e ai nostri nipoti, ad essere liberi, liberi nella fantasia, liberi nei sentimenti...

Un grande maestro in questo senso è stato Gianni Rodari





...ci vuole immaginazione per raggiungere il dominio delle cose...

"Le favole dove stanno?
Ce n'è una in ogni cosa:
nel legno del tavolino,
nel bicchiere, nella rosa.
La favola sta lì dentro
da tanto tempo e non parla.
E' una bella addormentata
e bisogna svegliarla
".

Il risveglio della favola avviene grazie alla sollecitazione della fantasia che non ha più bisogno, per volare e creare, dei re e delle regine, dei draghi e dei castelli incantati, delle fate e dei maghi, o almeno non ha più bisogno soltanto di questo. La favola si sveglia anche di fronte alla realtà più grigia, all'ovvietà quotidiana, al problema sociale e alla vita familiare, e la magia sta nell'osservare tutto con ironia, ricorrendo al gioco, così importante per i bambini, all'infrazione della regola attraverso l'invenzione e l'immaginazione.

Il risveglio della favola avviene grazie alla sollecitazione della fantasia che non ha più bisogno, per volare e creare, dei re e delle regine, dei draghi e dei castelli incantati, delle fate e dei maghi, o almeno non ha più bisogno soltanto di questo. La favola si sveglia anche di fronte alla realtà più grigia, all'ovvietà quotidiana, al problema sociale e alla vita familiare, e la magia sta nell'osservare tutto con ironia, ricorrendo al gioco, così importante per i bambini, all'infrazione della regola attraverso l'invenzione e l'immaginazione.

Una buona tecnica teorizzata da Rodari è quella dell'"ipotesi fantastica": si parte dal quesito cosa succederebbe se e dopo quel "se" si può immaginare tutto ciò che si vuole e la fantasia si sbizzarrisce ipotizzando che un bambino riceva in regalo una penna magica che scrive da sola, che un coccodrillo partecipi come concorrente a Rischiatutto, invitato da Mike Bongiorno, o ancora che l'ascensore di casa nostra precipiti al centro della terra per poi schizzare sulla luna.
Dalla formulazione dell'ipotesi fantastica si passa alla costruzione della favola e alla presentazione dei personaggi bizzarri che la animano: il cow boy solitario che usa il pianoforte come arma, il postino che riesce a sollevare carichi pesantissimi o il pifferaio magico che al posto dei topi incanta le automobili in una città invasa dal traffico, sono i protagonisti delle "Novelle fatte a Macchina" del 1973, in cui Rodari descrive situazioni del vivere quotidiano fatto dei vizi e delle virtù degli uomini, che sfociano sempre in finali imprevedibili e divertenti.

Nelle sue favole il gioco ha un ruolo importantissimo e inizia con le parole, con il linguaggio ed il capovolgimento delle frasi fatte e delle espressioni cristallizzate: si cambiano le regole per creare qualcosa che non annoi, che non impigrisca, che anzi spinga a riflettere e a giocare, imparando sempre in libertà. Parlando della sua "Grammatica della Fantasia" del 1973 Rodari spiega l'importanza della parola, il valore che assume il linguaggio dal punto di vista pedagogico:

"Spero possa essere utile a chi crede nella necessità che l'immaginazione abbia il suo posto nell'educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. "Tutti gli usi della parola a tutti" mi sembra un bel motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siamo artisti, ma perché nessuno sia schiavo".

La nuova favola, dunque, utilizza appieno il linguaggio, ricorre ad un vocabolario ricchissimo fatto di parole di ogni giorno e di termini rari, di stili e registri diversi, contribuendo così alla formazione linguistica del piccolo lettore che usufruisce di una lingua sempre viva e autentica come la realtà che lo circonda. La quotidianità dei contenuti e la genuinità del linguaggio, col procedere del racconto, si trasformano ed esplodono in mille fuochi d'artificio accesi dall'ironia, dallo sconvolgimento dei luoghi comuni, da un duello vero e proprio che inizia tra le parole:

"E' difficile fare
le cose difficili:
parlare al sordo
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate
a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi
".

(Da "Parole per giocare", 1979)

Spesso sono solo due parole, il "binomio fantastico", come lo chiama Rodari, a mettere in moto la fantasia, due parole a caso, di quelle usate più comunemente nella vita di tutti i giorni, anche senza alcuna attinenza logica l'una con l'altra: "ladro" e "campanello", ad esempio, formano il binomio da cui lo scrittore parte per costruire una fiaba tenera e divertente. Il protagonista, il povero signor Guglielmo, terrorizzato dalle incursioni dei ladri negli appartamenti, decide di appendere un grosso cartello sulla porta di casa sua: "Si pregano i ladri di suonare il campanello. Essi saranno lasciati entrare liberamente e potranno vedere con i loro occhi che qui non c'è proprio niente da rubare. (Di notte suonare a lungo perché ho il sonno molto duro). Firmato: il signor Guglielmo".
La favola prosegue e termina con il successo dell'iniziativa di Guglielmo che addirittura, quando suonano il campanello dei ladri troppo poveri, "regala loro qualche cosa: un pezzo di sapone, una lametta per fare la barba, un po' di pane e formaggio. I ladri sono sempre gentili con lui e prima di andarsene gli fanno un inchino".

Grazie a Rodari e alla rivoluzione della favola negli anni '70 è nato un nuovo approccio alla letteratura infantile: il bambino non si accinge alla lettura di un libro per puro istinto, lo fa soltanto se spinto dalla curiosità innestata in lui da un agente esterno che sempre ha un collegamento con la sua realtà. Importante in tale contesto il ruolo della famiglia e della scuola, che dovrebbero fungere da iniziatori alla lettura stimolando nei piccoli la curiosità. Acquisendo gradualmente il gusto del libro, il bambino può affinare anche la capacità di utilizzarlo come strumento per conoscere il mondo, per conquistare i suoi significati reali, per crescere.
Ecco, allora, che la favola raccontata da Rodari ha grande significato nel cosmo culturale infantile: il ruolo della fantasia e dell'immaginazione resta sempre fondamentale, ma queste diventano mezzi per l'approccio alla realtà, alle figure, alle parole e ai problemi del mondo di oggi.
La nuova favola educa il bambino a vivere non tra le nuvole, ma con i piedi piantati per terra, gli insegna a districarsi tra le cose del mondo, ad apprezzarne i lati positivi e a disprezzarne quelli negativi, a distinguere tra il bene e il male "qui ed ora", sempre sorridendo però, giocando e dando sfogo alla sua fervida immaginazione.
"

"Un foglio di carta si vantava di essere bianco immacolato. E non sarebbe meglio per lui e per tutti se un Dante Alighieri lo avesse sporcato d'inchiostro, scrivendoci qualche bella terzina, o una bella ragazza scrivendo una lettera d'amore?
La vita, un pochino, sporca, si sa
."

La nuova favola insegna ad utilizzare l'arma del riso, dell'ironia e dell'autoironia e rappresenta un fondamentale canale di contatto tra il bambino e l'adulto; è la finestra, come afferma Rodari, attraverso la quale ci si può infilare per entrare nella realtà (e che divertimento!),invece di imboccare la porta principale.

venerdì 2 aprile 2010

Una pacata e serena riflessione sul risultato elettorale

“…Se desideriamo un paese migliore dobbiamo essere disposti a dividere esperienze e risorse ed allo stesso tempo a sviluppare la capacità della comunità ad accettare le sfide del futuro. Non possiamo aspettarci che un nuovo governo cambi le cose da solo. Dobbiamo assumerci la responsabilità di apportare i cambiamenti…”.

Questa frase è stata pronunciata da Ela Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi, nel 1993 in Sud Africa durante la nona “Desmond Tutu Peace Lecture”.

Il 1993 è lontano ormai 17 anni e la storia sociale e politica di Gandhi ci riportano a quasi 100 anni da oggi, ma niente di più attuale possiamo trovare in queste parole e nella figura e nell’operato del Mahatma.

Ecco perché ho scelto Gandhi e le sue parole sul cambiamento come motivo ispiratore della mia campagna elettorale, perché ritengo, e con me la Rete Interregionale delle Rose Rosse che rappresento, che c’è bisogno di sviluppare un clima di condivisione sociale e civile prima che politica e, contemporaneamente, di costruire una società giusta attraverso programmi comuni.

La vita di Gandhi ci ha insegnato una lezione molto chiara: è facile postulare i principi, ma molto difficile metterli in pratica. Credere in una vita di benessere per tutti, credere nella democrazia, credere nella pace va molto bene, ma il passo finale è mettere in pratica quello che abbiamo imparato o cominciato a credere dentro. Questo obiettivo è quello che finalmente determina la qualità della nostra vita.

Per quanto mi riguarda, durante l’appena trascorsa campagna elettorale da indipendente di sinistra, ritengo di aver totalmente messo in pratica ciò in cui credo e che strenuamente sto portando avanti con la Rete Interregionale delle Rose Rosse: il rispetto delle persone, il rispetto delle regole, il rinnovamento, la legalità, la trasparenza.
Ed il consenso che ho ricevuto, i miei 106 voti, frutto ESCLUSIVO del mio impegno, dell'appoggio e della stima dei miei amici nonchè del sostegno dei membri e simpatizzanti della Rete delle Rose Rosse, rispecchiano in toto il mio impegno ed insieme la difficoltà a mettere in pratica i principi in cui si crede.

Una difficoltà che è stata innanzitutto mia personale, nel dovermi districare in mezzo a tanta gente opportunista e traffichina, che predica bene e razzola male, che applica, in privato, quella cultura dell’inciucio e del clientelismo che, invece, in pubblico, va condannando al alta voce, in mezzo a tanta gente arrivista e che vede e vive la politica con una gestione familiaristica ed autoritaria.

Ma una difficoltà che è stata anche degli elettori, dei cittadini, delle samnitae gentes vittime di quell’incantesimo nel quale pochi bramosi di potere le hanno gettate e incapaci di uscirne attraverso l’arma, potente e democratica, del voto, quelle samnitae gentes che un tempo soggiogavano i propri nemici ed oggi invece si trovano soggiogate dalla brama di denaro e di potere di pochi che non porta alcun beneficio ai molti.

In questa realtà, ecco, quindi, che i 106 voti miei e degli amici della Rete Interregionale delle Rose Rosse, sono un grande, grandissimo risultato!!!

Dietro questi 106 voti ci sono altrettante persone che sono riuscite ad affrancarsi da questo cancro in metastasi che è il malaffare, il clientelismo, la mala politica e la mala società ed hanno mostrato con i fatti il loro cambiamento, a partire dal voto, un voto di opinione, un voto di fiducia e stima, un voto per il cambiamento!!!

Per queste 106 persone votare Elvira Santaniello non è stata una scelta di convenienza, ma una scelta fatta con cognizione di causa, un cambiamento personale innanzitutto rispetto al tragico andazzo generale, un piccolo passo verso la direzione giusta ovvero quella di pensare davvero a quello che si fa prima di farlo.

Questo è un piccolo passo certo, ma tanti piccoli passi, prima o poi, portano al traguardo, e lo fanno in modo naturale, spontaneo, non forzato.
Come diceva Gandhi, ed io con lui, “come le nuvole nel cielo”.