lunedì 31 gennaio 2011

Questo scriveva Giuseppe Gioacchino Belli nell'800...

...una preveggenza che lascia senza parole...

Mentre ch'er ber paese se sprofonna
tra frane, teremoti, innondazzioni
mentre che so' finiti li mijioni
pe turà un deficì de la Madonna

Mentre scole e musei cadeno a pezzi
e l'atenei nun c'hanno più quadrini
pe' la ricerca, e i cervelli ppiù fini
vanno in artre nazzioni a cercà i mezzi

Mentre li fessi pagheno le tasse
e se rubba e se imbrojia a tutto spiano
e le pensioni so' sempre ppiù basse

Una luce s'è accesa nella notte.
Dormi tranquillo popolo itajiano
A noi ce sarveranno le mignotte
.

martedì 25 gennaio 2011

Si avvicina la Giornata della Memoria...

...In concomitanza con la Giornata della Memoria, Einaudi pubblica "Qui non ci sono bambini. Un'infanzia ad Auschwitz" di Thomas Geve.
E' un libro sul più noto campo di concentramento nazista, ma non è il "solito" libro su Auschwitz...è la descrizione molto dettagliata, attraverso i disegni di un ragazzino, non solo dell' architettura e dell'organizzazione del Lager, ma anche del funzionamento interno, dei tipi di lavoro, dei regolamenti disciplinari, dei problemi igienici, dell'alimentazione.

Thomas era nato e vissuto a Stettino con la mamma e i nonni, mentre il padre, espatriato a Londra, faceva vani tentativi per richiamare a sé i suoi cari. Ad Auschwitz, Thomas fu deportato nel 1943 assieme alla madre, che resistette pochi mesi al lavoro forzato. In base alle regole del Lager, tutti i bambini al disotto dei quattordici anni (e tutti i vecchi) venivano mandati direttamente alle camere a gas, ma Thomas, giudicato robusto e adatto al lavoro, fu sottratto al forno crematorio e, dunque, fu un'eccezione. E a quest'eccezione allude il terribile titolo della sua opera.
Thomas cominciò a fare i suoi disegni nel 1945 durante i quindici giorni di convalescenza a Buchenwald dopo l'evacuazione di Auschwitz e li fece per comunicare al padre, poi finalmente raggiunto a Londra, come aveva passato i due anni di prigionia. Così, il retro dei moduli e dei formulari delle SS diventano 79 disegni cui, solo diversi anni dopo, aggiungerà qualche, essenziale, parola di commento.
Ogni cosa, ogni episodio, ogni traccia, per quanto flebile, di vita, ogni manifestazione, per quanto spaventosa, dell'orrore, viene registrata dai disegni di Thomas. Con il tratto semplice e stilizzato della sua età ma con l'attenzione per il dettaglio del futuro ingegnere, Geve dà vita a un documento di una bellezza straziante nel suo tentativo di sfidare l'abisso con lo sguardo, e le matite, di un bambino. (dal sito Einaudi)
Questi disegni non riscossero subito molto interesse nell'immediato dopoguerra ma, dopo essere stati depositati nel Museo d'Arte dello Yad Vashem di Gerusalemme, sono stati inseriti in mostre itineranti ed in raccolte parziali, fino a quest'ultima che è la raccolta completa.



Qui l'introduzione al libro.

Alcuni stralci molto significativi:
"Avevo tredici anni quando fui mandato ad Auschwitz con mia madre. Era la fine di giugno del 1943. Poiché dimostravo più della mia età, ebbi la fortuna di essere considerato abile al lavoro. I bambini sotto i quindici anni erano inviati direttamente alla camera a gas. A parte un altro ragazzo, uno zingaro di nome Jendros, allora ero il più giovane dei 18.000 internati nel campo di Auschwitz i. Avevo il numero di matricola 127003. Mia madre fu mandata a Birkenau e lavorava alla fabbrica "Union". Purtroppo non sopravvisse. Dopo l'evacuazione di Auschwitz sono stato nel campo di Gross-Rosen, nel gennaio del 1945, e poi a Buchenwald, dove sono stato liberato l'11 aprile 1945. Prima di quel giorno non avevo mai conosciuto la libertà".
"Ero gravemente debilitato e avevo perso le unghie dei piedi per l'attrito contro gli zoccoli di legno e per la denutrizione. Troppo malridotto per lasciare la mia baracca, il blocco 29, quello dei prigionieri antifascisti tedeschi, vi rimasi più di un mese dopo la liberazione del campo. Fu allora che eseguii una serie di settantanove disegni miniaturizzati, a colori, delle dimensioni di una cartolina, per illustrare i vari aspetti della vita in campo di concentramento. Li feci essenzialmente con l'intento di raccontare a mio padre la situazione cosi com'era realmente stata".
"Avevo quindici anni quando ho visto Weimar per la prima volta. La cosa che mi colpiva di più erano i bambini che giocavano per strada".

lunedì 24 gennaio 2011

"Meno bla bla bla, più risultati" gridano in Belgio...in Italia stiamo ancora zitti...per quanto tempo ancora?


"Politici, siete pagati per trovare soluzioni, smettetela con i vostri giochi da bambini, vogliamo risultati"...così grida la gente in Belgio partecipando ieri alla "marcia della vergogna"...ed in Italia?
Noi non ci vergogniamo abbastanza, chissà cos'altro dovremmo vedere e sopportare per arrivare a vergognarci di vivere in questa Italia!!!

Il Belgio è da sette mesi a questa parte immobilizzato in uno stallo istituzionale e politico senza precedenti nella storia. Dopo un voto dall'esito a dir poco incerto, i partiti non riescono a trovare un accordo sul governo da nominare.
In Italia un governo ce l'abbiamo ma nei fatti è un governo che non governa: la vita politico istituzionale è praticamente ferma...l'unico dinamismo è individuabile nella necessità, da parte della maggioranza, di sbrigarsi a trovare soluzioni valide per togliere il Presidente del Consiglio dai guai che combina...ed ecco il Lodo Alfano, la compravendita dei parlamentari, il tentativo da parte del PdL di far trasferire i reati di pedopornografia e prostituzione dalla competenza delle grandi alle piccole procure (emendamento proposto al senato dal senatore del PdL Roberto Centaro e poi bocciato), l'idea, confermata dal capogruppo del PdL alla Camera Fabrizio Cicchitto di abbassare, con valore retroattivo, la maggiore età a 16 anni.

Dobbiamo aspettare ancora per una sollevazione popolare contro questo schifo?
In Belgio questa marcia della vergogna l'hanno organizzata 5 ragazzi su Facebook...

e noi?
E il popolo viola è sparito?
E Grillo ora non parla più?
La società civile dov'è?

Eppure una minoranza che si è rotta i marroni dell'inerzia, della volgarità, dello squallore (sono parole di Francesco Alberoni su Il Corriere della Sera di oggi) che dominano l'Italia negli ultimi tempi c'è, c'è sicuramente...

Si tratta di fare in modo che diventi una minoranza che trascina dietro di sè tutti gli altri...proviamoci, ognuno con il nostro personale esempio!!!

O per l'Italia e gli Italiani, l'indignazione è ancora pura fantascienza?

sabato 22 gennaio 2011

La riscoperta dell'indignazione di Benedetta Tobagi

da “la Repubblica” del 22 gennaio 2011

Trentadue pagine in cui articola l'imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all'emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l'immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e
invidia.
l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l'economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell'acquiescenza di larga parte dell'opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l'illusione della crescita indefinita e dagli Usa all'Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l'Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall'affaire Ruby.
L'affiorare di sussulti d'indignazione popolare che rompono l'indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L'indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un'etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell'indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L'indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall'ingiustizia, come l'odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l'indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!'?".
Nell'indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter.
L'invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall'impatto distruttivo delle forze impersonali dell'economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell'indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall'oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all'intero corpo sociale, nel lungo periodo. L'indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l'agire politico.
Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell'indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d'ingiustizia è il contrassegno universale dell'umanità: l'indignazione, spesso, è selettiva. Nel '68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.
Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L'uomo indignato odia l'ingiustizia e l'argine che lo trattiene dal volgere quell'odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l'unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall'uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.
Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un'"utopia dell'invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l'indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un'"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all'ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.
Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L'indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo. C'è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall'etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l'economia dell'empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa

venerdì 14 gennaio 2011

Indignez vous! su Il Fatto Quotidiano

Il Fatto Quotidiano del 13/01/2011



Indignez vous! (traduzione completa)

Ho cancellato la traduzione del libro di Hessel dal mio blog "Il cambiamento" nel rispetto della casa editrice che ne ha acquistato i diritti e sta per distribuirlo in Italia.

Tuttavia, rendo disponibile su Facebook la traduzione per tutti coloro che vorranno leggerla

martedì 4 gennaio 2011

Italiani, Indignez-vous!

Sto aspettando con ansia la traduzione italiana del saggio di Stéphane Hessel, Indignez-vous! : quello che ho letto in rete su questo piccolo libretto di 28 pagine mi affascina troppo per non essere ansiosa!!!
Siamo di fronte ad un arzillo vecchietto, nato nel 1917, eroe della Resistenza durante l’occupazione nazista in Francia, poeta e diplomatico…siamo di fronte ad un uomo che ha combattuto l’invasione nazista, che è stato catturato e deportato a Buchenwald e a Dora, che è riuscito a fuggire dai campi di concentramento e nel 1948 ha contribuito alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo …nulla di glamour, insomma, sembrerebbe solo un vecchio signore con un nobile passato…

Un uomo così, con questa storia, con queste esperienze, a avrebbe potuto tranquillamente accontentarsi del suo posto nella storia moderna di Francia, invece, già vecchio, nel 1996 ha partecipato attivamente alla mobilitazione in difesa di 314 sans papiers asserragliati nella chiesa di Saint Bernard a Parigi, diventandone il portavoce e poi, due mesi e mezzo fa, il 3 settembre 2010, è sceso in strada per manifestare contro le politiche anti immigrazione di Sarkozy e dei suoi ministri Hortefeux e Besson, e in difesa dei rom.
A ciò si deve aggiungere l’impegno costante a favore dei palestinesi di Gaza, con le inevitabili polemiche che ciò ha comportato…Quest' estate il «Bureau National de Vigilance Contre l' Antisémitisme» lo ha denunciato per la sua partecipazione alle campagne di boicottaggio economico di Israele e lo studioso Pierre-André Taguieff lo ha insultato durante una trasmissione radio.
Tuttavia, a chi gli chiedeva il perché di queste sue azioni, in numerose interviste ha risposto che lui non ce la fa ad accettare l’inaccettabile!
«Sono ebreo per parte di padre e ho combattuto i nazisti, non sono particolarmente sensibile all' accusa di antisemitismo. Rivendico il diritto di indignarmi per le azioni di uno Stato, che sia Israele o qualsiasi altro. Questo non significa essere antisionisti o antisemiti, è una sciocchezza. Due Stati, uno ebraico e l' altro palestinese, devono convivere. Lo spero con tutte le mie forze» ha sempre gridato a gran voce.
«In tanti Stati esistono ancora ingiustizie spaventose, e per questo mi indigno e chiedo ai giovani di indignarsi. Allo stesso tempo, voglio restare ottimista come lo sono stato sempre, per tutta la vita. Molti progressi sono stati fatti, il mondo è un posto migliore: la democrazia è più diffusa, i totalitarismi sconfitti, l' apartheid e il colonialismo finiti. Sperare è lecito» ha dichiarato.

Un uomo così, con questa storia, con queste esperienze, avrebbe potuto tranquillamente, a 93 anni, scrivere un libro di memorie, autocelebrativo quanto basta, ed ottenere un’ egual gloria; invece, ha scelto di rianimare la coscienza dei suoi compatrioti del nuovo millennio condensando il suo sguardo e le sue esperienze in poche, sferzanti pagine. Indicando i temi su cui vale la pena indignarsi per cambiare la società: il crescente divario tra ricchi e poveri, la necessità di ricreare un sistema dell’informazione autenticamente libero, lo scioccante trattamento riservato dalla Francia di Sarkozy agli immigrati, la questione ambientale e quella palestinese, l’impunità derisoria delle leggi e del diritto internazionale di cui gode Israele, la necessità di difendere il sistema del welfare. recuperando quell’indignazione che aveva animato la resistenza francese (da Lettera 43, quotidiano on line indipendente).
E, addirittura, il 31 dicembre scorso ha fatto i suoi auguri di buon anno ai francesi dichiarando “Resistiamo agli auguri del presidente, che non sono più credibili”.

Quest’uomo sta diventando un idolo per le nuove generazioni francesi, e sta diventando un idolo perché, con la sua vita senza eccessi, sempre pacata, seppur straordinaria, il suo messaggio fatto di umanità, ribellione e ottimismo è assolutamente credibile.

Non vedo l’ora di leggere questo libro!
Sono certa che le parole di Hessell, l’invito ad una rinnovata indignazione civile per una «insurrezione pacifica» fatta di valori, possono avere un’importanza cruciale anche per noi italiani!