domenica 27 gennaio 2013
..ieri parlavo di coraggio...ma quanti sanno cosa significa?
...ieri parlavo di coraggio...ma quanti sanno cosa significa? deriva da cor habeo, ho cuore...quando si dice che una persona ha cuore, di solito si intende che è compassionevole, altruista, generosa.
Tutto vero. ma molto, troppo spesso si dimentica che che nel cuore risiede quella forza d'animo che permette di affrontare, dominare, situazioni difficili e avvilenti, senza rinunciare alla dimostrazione dei più nobili attributi della natura umana, quella capacità di affrontare rischi, pericoli o addirittura l’impopolarità, per il bene pubblico o per amore della verità e della giustizia...
Insomma, il coraggio è una virtù u-mana, una qualità che va ben oltre i semplici atti materiali e/o verbali, per coinvolgere un aspetto più profondo dell’essere umano. Un altro anello per riconoscere la catena di elementi di qualità che possiedono le persone, che si sviluppano positivamente e favoriscono anche l’evoluzione di coloro che li circondano e con i quali entrano in contatto professionalmente e/o nella vita privata. Il coraggio è lo strumento che aiuta a rafforzare gli aspetti più nobili dell’individuo, e insegna a riconoscere e superare quelli che vengono considerati come “limiti”, e che, molto spesso, sono dettati solo da ignoranza e paura. ...
l coraggio è il fratello maggiore della paura, nel senso che la prende per mano e l’accompagna. Infatti la paura ha una funzione, e molto importante: frenare e impedire il movimento, inibire l’individuo; ma non per bloccarlo, bensì per metterlo di fronte alle proprie vulnerabilità, che è il primo passo per poterlo rafforzare senza subire traumi. In altre parole, quando abbiamo paura di qualche cosa, dovremmo soffermarci a riflettere sul vero motivo di quel timore: un segnale utile che ci permette di valutare attentamente la situazione e di prendere i necessari provvedimenti per garantirci un successo.
Guardando la paura dal coraggio, essa si trasforma in forza per andare avanti, optare per scelte più libere e personali, e anche meno influenzate dalle emozioni transitorie. In sostanza, imparare a confrontarsi nel modo corretto con le proprie difficoltà è il primo passo per imparare a trasformarle perché ogni ostacolo, con la paura che lo accompagna, quando viene affrontato, diventa un’occasione per migliorare ed evolvere così anche il coraggio si espande, e con esso una maggiore consapevolezza, forza e libertà. Il coraggio è sostenuto dalla responsabilità che è un atto di libertà, espressione fondamentale della capacità dell’uomo adulto: significa infatti donare una risposta adeguata, utile e costruttiva alle domande piccole o grandi della vita.
Molto spesso la tentazione nella quale si cade è quella di non decidere, di non prendere la responsabilità della propria vita e delle proprie azioni per paura di diventare adulti, di perdere le proprie sicurezze, di sbagliare, di essere giudicati, di non essere amati.
Per questo ci vuole coraggio, il coraggio di scegliere di diventare “qualcuno”, ben identificato nel proprio ambiente umano e materiale.
Infatti, lo sviluppo della persona avviene nel suo ambiente umano e materiale e questo ambiente è a sua volta soggetto all’azione della persona stessa, quindi alle sue scelte.
Scegliere nasce dalla propria libertà interiore: decidere e mettere in atto ciò che si percepisce buono e costruttivo è un atto di responsabilità e coraggio e per poter attuare le scelte con libertà e responsabilità occorre che impariamo a conoscere e riconoscere i nostri valori profondi, la nostra identità e la nostra solidità.
Ci si può affidare al coraggio per approfondire la conoscenza di sé, e quindi agire per favorire il cambiamento e l’evoluzione compiendo un fondamentale passo sulla via del benessere, che è un diritto di ciascuno.
Ciascuno di noi può orientarsi, nelle scelte di vita, affidandosi alla propria “bussola interiore” che indica la direzione e la strada da percorrere per affrontare problemi e difficoltà personali, professionali o sociali e uscirne.
In questo modo si scelgono coscientemente atti liberi da porre in atto; non si subisce passivamente tutto ciò che è causato dalle altrui responsabilità e, indipendentemente da quanto potere si ha di cambiare le cose, ciò che conta è l’aver coraggio di agire in maniera costruttiva, comunicare ciò che si pensa, proporre alternative e comportarsi in coerenza con i valori.
Comprendiamo dunque come il coraggio non nasca tanto a causa della disperazione, ma emerga al suo posto quale risposta dell’individuo adulto e responsabile che si assume l’onere di guidare la propria vita.
C’è un altro particolare che vale la pena sottolineare e ricordare: il coraggio è una risorsa della quale disponiamo tutti, e fin da piccoli. Un bambino di pochi mesi che sta imparando a camminare un bel giorno riuscirà a muovere i primi passi da solo, senza che nessuno lo tenga per mano.
Ed è indubbiamente un bell’atto di coraggio! Questo testimonia come si tratti di una spinta vitale che accompagna l’essere umano lungo tutta la sua vita.
C’è, in ultimo, anche un altro punto da chiarire, particolarmente importante: il coraggio non è da confondere con l’incoscienza che è assenza o perdita della cognizione di sé e della realtà; è invece un movimento di solido amore, per se stessi e per il mondo.
Così come a volte ci vuole coraggio per affrontare una telefonata, un colloquio, un esame, ce ne vuole altrettanto per permettere a se stessi di vedere le cose nuove della vita, di ampliare i propri orizzonti e le proprie visioni, di scegliere o accogliere i cambiamenti e le occasioni di crescita; altrimenti, se non si lascia spazio anche a questo genere di coraggio, il rischio è non riuscire a percepire con la dovuta chiarezza dove va il flusso della vita e qual è il proprio posto da prendere e il ruolo da svolgere. Ogni cambiamento, ogni nuova strada che percorriamo, ogni “futuro” possibile è, prima di tutto, “visto” nella nostra mente. Così possiamo creare un futuro migliore per noi, immaginandolo prima nella nostra mente e agendo poi perché si possa realizzare. Spesso però siamo limitati dal filtro delle credenze: tutte le esperienze e tutto quello che gli altri hanno raccontato o insegnato, tutto quello che è stato letto diviene anche il filtro attraverso il quale si osserva il mondo e si definisce ciò che può essere realizzato e ciò che non può esserlo. Questo filtro limita moltissimo le possibilità. Anche per permettere a se stessi di generare nuove visioni per il proprio futuro occorre allora una buona dose di coraggio: si deve camminare in territori sconosciuti, si devono abbandonare le credenze, le abitudini e i riferimenti noti e “osare” il rischio di rompere consolidati equilibri. Talvolta è necessario dire dei “no”, per esempio - che equivalgono spesso a un “sì” a qualcos’altro, ad esempio a se stessi - così alcune scelte possono apparire sbagliate per gli altri, ma non per noi. Un atto di coraggio dunque per affermarsi anche a costo di sfidare i luoghi comuni, i comportamenti, e le decisioni facili e scontate, correndo il rischio dell’impopolarità agli occhi di qualcuno. Non è un caso che il coraggio sia una delle doti di un vero leader, il quale è spesso chiamato a prendere decisioni determinanti, a confrontarsi con situazioni importanti e talvolta anche con questioni legate alla vita e alla morte dell’organizzazione della quale è alla guida. Diventare coraggiosi è un processo caratterizzato da momenti alterni di progressione e regressione, e da diverse fasi. In una fase c’è tensione e senso di confusione: è quando ci confrontiamo con i nostri valori, impegni e convinzioni e il pensiero sa assumere o meno il rischio che un atto di coraggio comporta. A questa segue poi l’accettazione del valore intrinseco della scelta, fase caratterizzata dalla decisione personale di agire secondo i nostri valori e convinzioni, e di accettare quindi la s da. Di solito, l’atto di decidere ha come e etto l’eliminazione della confusione: presa la decisione, siamo subito in grado di focalizzare meglio come agire, arrivando così alla fase dello sforzo esplicito per realizzare la scelta, analizzando e soppesando le opportunità e i rispettivi rischi. Fino alla conclusione del ciclo, ovvero la fase della graduale chiarificazione, che ci permette di raggiungere una comprensione profonda dei motivi che ci hanno spinto ad agire in modo coraggioso, nonché a trarre un bilancio della nostra azione. Oggi viviamo in un contesto sempre più incerto e complesso; i cambiamenti sono rapidi e le scoperte scienti che e tecnologiche influenzano molto la nostra vita: lo chiamiamo progresso. In questo correre del progresso anche le donne e gli uomini hanno la necessità di progredire responsabilmente senza perdere le qualità dell’umanità e della spiritualità. Il coraggio permette la realizzazione profonda di sé: vivendo per quello che si è davvero e sviluppandosi continuamente attraverso il ciclo delle proprie esperienze e la conoscenza di se stessi.
Le donne e gli uomini possono così offrire al mondo elementi diversi per la creazione della realtà, elementi innovativi, responsabili e umani che influenzano positivamente la collettività tutta. In questo contesto è richiesta ancora una volta e ancora di più l’espressione del coraggio. Il coraggio aiuta a realizzare la propria vita in un agire che viaggia nella direzione e nella ricerca di significato e auto-affermazione sia per il proprio bene che per il bene comune. Il coraggio della responsabilità, il sapersi assumere le conseguenze del proprio agire, ha segnato le tappe del nostro progresso, dell’affermazione dei diritti delle donne e degli uomini e, in molti paesi, della civiltà. Il coraggio è in noi, è un’umana virtù da riscoprire e nutrire quotidianamente insieme alla responsabilità, quali semi per la crescita delle persone libere, generative e creative che sanno accedere a nuove visioni e realizzare i nuovi mondi possibili in cui vivere.
sabato 26 gennaio 2013
...per cambiare ci vuole coraggio...
...Ci vuole coraggio per rompere con le convenzioni seguire con
determinazione il proprio cuore....
Ed è così anche per per tutti i tipi di aggregazioni umane e sociali che, ricordiamocelo, sono fatte da persone e non solo da strutture e processi e si interfacciano con persone, non solo situazioni, tematiche e problemi... ci vuole coraggio per fare un passo avanti, ed a maggior ragione ci vuole coraggio per farne tre.
Fare un passo avanti è abbastanza facile, ma non basta.
Si ha l’illusione di aver conquistato un vantaggio sugli altri, ma spesso il margine acquisito può essere facilmente eroso...
Far due passi è una bella tentazione, è sicuramente un momento innovativo, ma ancora una volta può non bastare...
Fare tre passi avanti, invece, vuol dire assumersi il rischio di cambiare le regole del gioco...tutte le forme di aggregazione umana e sociale che sono consapevoli che per innovare veramente bisogna compiere tre passi sono quelle che sanno creare la generazione successiva!
Alcide De Gasperi diceva: “La differenza tra un uomo politico e uno statista è la seguente, mentre il primo pensa alle prossime elezioni, il secondo pensa alle prossime generazioni”.
Credo che la stessa considerazione valga anche tra fare un passo (pensare ai risultati a breve) e fare tre passi (pensare agli interventi strutturali). Fare tre passi è difficile. E’ difficile farsi capire, convincere gli altri, costruire qualcosa.
Nella maggior parte delle aggregazioni umane e sociali, l'individuo preferisce stare al centro di quella che viene chiamata “curva a campana”, che altro non è che la rappresentazione grafica della maggior parte delle misurazioni. Prendiamo ad esempio la statura, da una parte ci sono i nani, dall’altra i giganti, ma la maggior parte delle persone tenderà a collocarsi al centro della curva, nella zona della statura media. Quelli che si reputano troppo bassi o troppo alti e per questo inadeguati e non agiscono con vigore, rischiano non solo di tarparsi le ali della crescita individuale e di gruppo, ma di perdere anche le posizioni già acquisite.
Ma la cosa bella della curva a campana è che ci sono persone che gravitano spontaneamente verso una sua certa parte. C’è chi, si vada lenti o veloci, decide di stare sempre qualche passo dietro agli altri, c’è chi tende a stare nel gruppo, e c’è chi si adopera nel cercare di essere sempre qualche passo avanti.
Il segreto, di una semplicità disarmante, è quello di non aspettare che le cose cambino per cambiare la propria posizione sulla curva, ma cambiare istintivamente il proprio punto sulla curva.
Se ci si abitua ad essere eccezionali (nel senso di porsi come eccezione) probabilmente lo si resterà per sempre.
La differenza è sempre tra chi sceglie dove porsi rispetto alla curva, e chi lascia che sia la curva a decidere per lui. ....
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il coraggio del cambiamento
martedì 27 marzo 2012
La Prima Comunione: business o momento di fede?
Ieri i miei figli, come ogni martedì, sono andati al catechismo.
Eh sì, mancano due mesi alla Prima Comunione e sono un pò emozionati.
Quando sono rientrati sventolavano tra le mani un fogliettino e mi hanno detto che era un avviso per me.
L'ho letto e mi sono cadute le braccia: era la nota spese per la cerimonia in Chiesa.
Abito euro 40, 2dvd + 10 foto euro 80, addobbo floreale per la Chiesa euro 12+ euro 5 per il giglio da portare in mano. Il tutto da pagare in due rate, una prima rata di 50 euro ad aprile e la seconda a maggio, e con uno sconto del 50% sulla seconda quota nel caso in cui a fare la Prima Comunione siano due fratelli.
Francamente sono rimasta alquanto sconcertata, dall'uso della parola "costo" in particolare.
Ebbene sì, sul bigliettino c'è scritto: "La cerimonia comporta dei costi".
Mi sono chiesta: se la parola "costo" significa, come da dizionario, "il prezzo pagato o associato ad un evento commerciale o ad una transazione economica", vuol dire il bene o servizio associato al costo me lo sto comperando?
Ma la Prima Comunione, prima di essere un bene o un servizio, non è un Sacramento?
Sicuramente non è solo un Sacramento ma anche uno spettacolo, visto che dobbiamo creare una location adatta attraverso addobbi floreali e perpetuarne il ricordo non con uno ma addirittura con due DVD, nonchè un business, visto che questi servizi non vengono indicati come eventuali, accessori e, soprattutto discrezionali, rispetto alla Cerimonia, ma come parte integrante di essa.
Quale, dunque, la mia riflessione di genitore su tutto questo?
Io cerco di educare i miei figli con certi valori morali,il rispetto delle cose e delle persone, la sobrietà, l'eguaglianza, e poi, scopro che tutto il resto, che la società è più forte di me. E questo non è morale. Il denaro, la televisione, il potere, persino la religione sono diventate qualcosa di diverso. Tutto è diventato un business, anche la prima comunione!
A metà ottocento, Henry Thoreau, un grande filosofo e scrittore statunitense, scriveva: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno”.
Oggi, alla luce di quanto ho raccontato e alla luce, soprattutto del nostro stile di vita tutto centrato sull’incentivazione del consumo ad ogni costo, anche al di là delle reali possibilità delle persone e delle comunità, questo ci potrebbe sembrare un punto di vista impensabile, persino un po’ utopico.
Tuttavia, io sono convinta che la sfida è fare scelte coraggiose, essere consapevoli che le nostre azioni possono “spostare” scelte compiute da alcuni a discapito di molti.
E fare queste scelte coraggiose non è certo facile: da bambina sono cresciuta nell’abbondanza e l’idea avere meno cose, lo confesso, fino ad un pò di tempo fa mi spaventava. Tuttavia, oggi che sono mamma sento tutto il peso e la difficoltà di educare i miei figli e, in un mondo votato al consumismo sfrenato, in cui gli economisti gli economisti affermano che soltanto incrementando i consumi, costruiremo un'economia sana e vincente, è necessario fare delle scelte.
Mi sono posta come obiettivo quello di educare i miei bambini alla sobrietà, alla semplicità di vita, perché mi sono resa conto nel tempo che una vita troppo piena di cose lascia meno spazio alle persone, alla natura e alla riflessione interiore.
Più volte mi sono trovata davanti alla domanda imbarazzante dei miei figli, che, avendo confrontato il nostro stile di vita con quello di altri, chiedevano: "mamma, ma noi siamo poveri?"
È stato complesso spiegare loro, visto che hanno solo 9 anni, che non siamo poveri, perché abbiamo tutto ciò che è essenziale alla vita e anche un po’ di superfluo, ma cerchiamo di sprecare il meno possibile, per rispetto del mondo in cui viviamo e delle persone che stanno peggio di noi.
E' chiaro, però, che prima di far diminuire in loro l'interesse per i beni materiali, è necessario farli “innamorare” di qualcosa di più importante: la natura, l’amicizia, le relazioni umane, l'uguaglianza, l'amore, tutto quel variegato mondo, insomma, che il possesso delle cose spesso ci tiene lontano.
Io lo sto facendo e lo faccio quotidianamente, e dalla Chiesa mi aspetterei altrettanto. Ma, a quanto pare, l'antico adagio relativo ai preti, "fate quello che dico io ma non quello che faccio io", è ancora assolutamente valido!!!
Eh sì, mancano due mesi alla Prima Comunione e sono un pò emozionati.
Quando sono rientrati sventolavano tra le mani un fogliettino e mi hanno detto che era un avviso per me.
L'ho letto e mi sono cadute le braccia: era la nota spese per la cerimonia in Chiesa.
Abito euro 40, 2dvd + 10 foto euro 80, addobbo floreale per la Chiesa euro 12+ euro 5 per il giglio da portare in mano. Il tutto da pagare in due rate, una prima rata di 50 euro ad aprile e la seconda a maggio, e con uno sconto del 50% sulla seconda quota nel caso in cui a fare la Prima Comunione siano due fratelli.
Francamente sono rimasta alquanto sconcertata, dall'uso della parola "costo" in particolare.
Ebbene sì, sul bigliettino c'è scritto: "La cerimonia comporta dei costi".
Mi sono chiesta: se la parola "costo" significa, come da dizionario, "il prezzo pagato o associato ad un evento commerciale o ad una transazione economica", vuol dire il bene o servizio associato al costo me lo sto comperando?
Ma la Prima Comunione, prima di essere un bene o un servizio, non è un Sacramento?
Sicuramente non è solo un Sacramento ma anche uno spettacolo, visto che dobbiamo creare una location adatta attraverso addobbi floreali e perpetuarne il ricordo non con uno ma addirittura con due DVD, nonchè un business, visto che questi servizi non vengono indicati come eventuali, accessori e, soprattutto discrezionali, rispetto alla Cerimonia, ma come parte integrante di essa.
Quale, dunque, la mia riflessione di genitore su tutto questo?
Io cerco di educare i miei figli con certi valori morali,il rispetto delle cose e delle persone, la sobrietà, l'eguaglianza, e poi, scopro che tutto il resto, che la società è più forte di me. E questo non è morale. Il denaro, la televisione, il potere, persino la religione sono diventate qualcosa di diverso. Tutto è diventato un business, anche la prima comunione!
A metà ottocento, Henry Thoreau, un grande filosofo e scrittore statunitense, scriveva: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno”.
Oggi, alla luce di quanto ho raccontato e alla luce, soprattutto del nostro stile di vita tutto centrato sull’incentivazione del consumo ad ogni costo, anche al di là delle reali possibilità delle persone e delle comunità, questo ci potrebbe sembrare un punto di vista impensabile, persino un po’ utopico.
Tuttavia, io sono convinta che la sfida è fare scelte coraggiose, essere consapevoli che le nostre azioni possono “spostare” scelte compiute da alcuni a discapito di molti.
E fare queste scelte coraggiose non è certo facile: da bambina sono cresciuta nell’abbondanza e l’idea avere meno cose, lo confesso, fino ad un pò di tempo fa mi spaventava. Tuttavia, oggi che sono mamma sento tutto il peso e la difficoltà di educare i miei figli e, in un mondo votato al consumismo sfrenato, in cui gli economisti gli economisti affermano che soltanto incrementando i consumi, costruiremo un'economia sana e vincente, è necessario fare delle scelte.
Mi sono posta come obiettivo quello di educare i miei bambini alla sobrietà, alla semplicità di vita, perché mi sono resa conto nel tempo che una vita troppo piena di cose lascia meno spazio alle persone, alla natura e alla riflessione interiore.
Più volte mi sono trovata davanti alla domanda imbarazzante dei miei figli, che, avendo confrontato il nostro stile di vita con quello di altri, chiedevano: "mamma, ma noi siamo poveri?"
È stato complesso spiegare loro, visto che hanno solo 9 anni, che non siamo poveri, perché abbiamo tutto ciò che è essenziale alla vita e anche un po’ di superfluo, ma cerchiamo di sprecare il meno possibile, per rispetto del mondo in cui viviamo e delle persone che stanno peggio di noi.
E' chiaro, però, che prima di far diminuire in loro l'interesse per i beni materiali, è necessario farli “innamorare” di qualcosa di più importante: la natura, l’amicizia, le relazioni umane, l'uguaglianza, l'amore, tutto quel variegato mondo, insomma, che il possesso delle cose spesso ci tiene lontano.
Io lo sto facendo e lo faccio quotidianamente, e dalla Chiesa mi aspetterei altrettanto. Ma, a quanto pare, l'antico adagio relativo ai preti, "fate quello che dico io ma non quello che faccio io", è ancora assolutamente valido!!!
venerdì 23 marzo 2012
Permettete una domanda?
Stamattina mi sono svegliata con questo interrogativo: che senso hanno l'associazione di Protezione Civile, la partecipazione al Giro d'Italia, la scuola a indirizzo musicale, l'ora della terra, la raccolta degli oli esausti, e tante altre cose qui a San Giorgio, se la comunità gradualmente muore dentro e fuori?
Ci lasciamo uccidere dall'amianto, dalla monnezza, dall'alcolismo giovanile, dallo spaccio di droga, dalla microcriminalità, dall'abbandono degli anziani, dal maltrattamento agli animali, dagli appalti illegittimi, dal consumo di territorio, dall'illegalità diffusa, dalla mancanza di trasparenza amministrativa, e siamo noi stessi gli artefici della nostra morte!!!
Cosa sta sucedendo alla nostra comunità?
Siamo abituati a tutto e tutto ci scivola addosso...la nostra è una comunità inerte, sfibrata, e, prendendo a prestito un termine medico, in coma profondo...
Ma non ancora morta...
Non morta, perchè tutte le cose che accadono, benchè brutte, inopportune, illogiche, e a volte anche illegittime, sono frutto di una certa qual vitalità, ma è sicuramente una comunità incapace di reagire.
Non esiste coscienza critica, ci si fodera occhi ed orecchie di prosciutto, non esiste alcun movimento di popolo.
San Giorgio è avviluppata in una favoletta ormai stucchevole, quella storiella del paese dei fiori e della cortesia che non esiste più da tempo, ormai...
L'unica soluzione che è stata individuata, in particolare dai più giovani, è quella di andarsene e lasciare dietro di sè a marcire il proprio paese...
Secondo me ad andarsene dovrebbero essere gli altri, quelli che hanno violentato questo territorio per trarne profitto personale, quelli che da questa terra hanno estirpato i fiori e ci hanno messo il cemento, quelli dal petto della gente hanno strappato un cuore pulsante e ci hanno messo un mattone, quelli che al posto della cortesia hanno fatto crescere e pascere l'indifferenza...
Qualcuno mi dirà: ma veramente vale la pena di rimanere e lottare?
Vale la pena, rispondo, perchè lottare e’ l’unica speranza.
Lottare perche’ questa terra merita la riconquista da parte del suo popolo.
Perché qui ancora ci sono ragazzi con grandi sogni e padri e madri che voglio un futuro migliore per i propri figli.
Rimanere e lottare perchè questa terra non si addormenti e i sogni di pochi possano essere la sua veglia.
Ci lasciamo uccidere dall'amianto, dalla monnezza, dall'alcolismo giovanile, dallo spaccio di droga, dalla microcriminalità, dall'abbandono degli anziani, dal maltrattamento agli animali, dagli appalti illegittimi, dal consumo di territorio, dall'illegalità diffusa, dalla mancanza di trasparenza amministrativa, e siamo noi stessi gli artefici della nostra morte!!!
Cosa sta sucedendo alla nostra comunità?
Siamo abituati a tutto e tutto ci scivola addosso...la nostra è una comunità inerte, sfibrata, e, prendendo a prestito un termine medico, in coma profondo...
Ma non ancora morta...
Non morta, perchè tutte le cose che accadono, benchè brutte, inopportune, illogiche, e a volte anche illegittime, sono frutto di una certa qual vitalità, ma è sicuramente una comunità incapace di reagire.
Non esiste coscienza critica, ci si fodera occhi ed orecchie di prosciutto, non esiste alcun movimento di popolo.
San Giorgio è avviluppata in una favoletta ormai stucchevole, quella storiella del paese dei fiori e della cortesia che non esiste più da tempo, ormai...
L'unica soluzione che è stata individuata, in particolare dai più giovani, è quella di andarsene e lasciare dietro di sè a marcire il proprio paese...
Secondo me ad andarsene dovrebbero essere gli altri, quelli che hanno violentato questo territorio per trarne profitto personale, quelli che da questa terra hanno estirpato i fiori e ci hanno messo il cemento, quelli dal petto della gente hanno strappato un cuore pulsante e ci hanno messo un mattone, quelli che al posto della cortesia hanno fatto crescere e pascere l'indifferenza...
Qualcuno mi dirà: ma veramente vale la pena di rimanere e lottare?
Vale la pena, rispondo, perchè lottare e’ l’unica speranza.
Lottare perche’ questa terra merita la riconquista da parte del suo popolo.
Perché qui ancora ci sono ragazzi con grandi sogni e padri e madri che voglio un futuro migliore per i propri figli.
Rimanere e lottare perchè questa terra non si addormenti e i sogni di pochi possano essere la sua veglia.
venerdì 16 marzo 2012
Don Diana e il 19 marzo: la mamora di un sacrificio o una semplice festa a scuola?
Il 19 marzo in Campania non è semplicemente la festa del papà: dal 2010, infatti, per iniziativa dell’allora Assessore Regionale all’Istruzione, Corrado Gabriele, è stata istituita, proprio per il 19 marzo, la giornata in ricordo di tutte le vittime della mafia e di quelle sacrificatesi per il valore della legalità, e in particolare di Don Giuseppe Diana, ucciso nella sacrestia della sua chiesa, la Parrocchia di San Nicola a Casal di Principe, proprio nel giorno di San Giuseppe.
Lunedì, dunque, non si andrà a scuola, ma con questo giorno di vacanza non c’entrano né la festa religiosa di San Giuseppe né la festa consumistica e commerciale del papà: è una festa laica quella che celebreremo, nel ricordo di un uomo e di un sacerdote che ha fatto della lotta alla criminalità organizzata il punto nodale della sua vita e che proprio da questa criminalità che combatteva ogni giorno è stato barbaramente ucciso.
E’ il giorno del ricordo, e fare memoria del sacrificio di Don Diana è sicuramente un atto doveroso. Lo stesso Assessore Gabriele, nelle motivazioni per l’istituzione di questa celebrazione, scriveva che il 19 marzo deve essere “uno stimolo, per i ragazzi e tutti gli studenti, a crescere nella memoria di questa importante figura di resistenza contro la camorra”.
Ebbene, ho chiesto ai miei figli, che frequentano la IV elementare, se, per caso, in questi giorni, avessero parlato a scuola di Don Diana, ma loro, candidamente, mi hanno risposto: “e chi è?”
Francamente, come mamma e come cittadina impegnata su vari fronti nella diffusione della cultura della legalità, sono rimasta particolarmente meravigliata dal fatto che non ne sapessero nulla e ho deciso di parlargliene io, ma ho anche deciso di scrivere al Dirigente Scolastico affinché invitasse il corpo insegnante a raccontare, anche ai più piccoli, di don Diana, del suo impegno anticamorra e del suo sacrificio “per amore del suo popolo”.
L’istituzione di questa ricorrenza a carattere regionale è stata una felice intuizione ed un atto sicuramente meritorio da parte della Regione Campania, ma non può e non deve passare come un’occasione come altre per fare festa a scuola!
La figura di don Diana è patrimonio di tutti, della Chiesa, delle associazioni cattoliche e laiche, dei semplici cittadini, delle Istituzioni, di tutti quanti considerano prioritario per la crescita a 360° della società l’eliminazione di quel cancro maligno che è la camorra, il malaffare, la criminalità… la figura di don Diana è patrimonio anche della scuola, che dovrebbe sentire forte il dovere culturale ed educativo di promuovere la memoria di esempi così grandi di coerenza e di coraggio.
Il mio invito, dunque, l’invito di mamma e di cittadina attiva e consapevole, è a tutti gli insegnanti e gli operatori della scuola: mettiamo per una volta da parte la solita poesia per la festa del papà e il classico e, probabilmente obsoleto, lavoretto con le mollette e facciamo iniziative volte a stimolare i nostri figli alla riflessione sull’impegno e il sacrificio di don Diana e di tutti quanti si sono sacrificati per il valore della legalità!
Solo così possiamo veramente crescere nella cultura della legalità, praticandola e tenendone sempre in mente il valore: credo che i papà ne saranno ugualmente contenti!
Lunedì, dunque, non si andrà a scuola, ma con questo giorno di vacanza non c’entrano né la festa religiosa di San Giuseppe né la festa consumistica e commerciale del papà: è una festa laica quella che celebreremo, nel ricordo di un uomo e di un sacerdote che ha fatto della lotta alla criminalità organizzata il punto nodale della sua vita e che proprio da questa criminalità che combatteva ogni giorno è stato barbaramente ucciso.
E’ il giorno del ricordo, e fare memoria del sacrificio di Don Diana è sicuramente un atto doveroso. Lo stesso Assessore Gabriele, nelle motivazioni per l’istituzione di questa celebrazione, scriveva che il 19 marzo deve essere “uno stimolo, per i ragazzi e tutti gli studenti, a crescere nella memoria di questa importante figura di resistenza contro la camorra”.
Ebbene, ho chiesto ai miei figli, che frequentano la IV elementare, se, per caso, in questi giorni, avessero parlato a scuola di Don Diana, ma loro, candidamente, mi hanno risposto: “e chi è?”
Francamente, come mamma e come cittadina impegnata su vari fronti nella diffusione della cultura della legalità, sono rimasta particolarmente meravigliata dal fatto che non ne sapessero nulla e ho deciso di parlargliene io, ma ho anche deciso di scrivere al Dirigente Scolastico affinché invitasse il corpo insegnante a raccontare, anche ai più piccoli, di don Diana, del suo impegno anticamorra e del suo sacrificio “per amore del suo popolo”.
L’istituzione di questa ricorrenza a carattere regionale è stata una felice intuizione ed un atto sicuramente meritorio da parte della Regione Campania, ma non può e non deve passare come un’occasione come altre per fare festa a scuola!
La figura di don Diana è patrimonio di tutti, della Chiesa, delle associazioni cattoliche e laiche, dei semplici cittadini, delle Istituzioni, di tutti quanti considerano prioritario per la crescita a 360° della società l’eliminazione di quel cancro maligno che è la camorra, il malaffare, la criminalità… la figura di don Diana è patrimonio anche della scuola, che dovrebbe sentire forte il dovere culturale ed educativo di promuovere la memoria di esempi così grandi di coerenza e di coraggio.
Il mio invito, dunque, l’invito di mamma e di cittadina attiva e consapevole, è a tutti gli insegnanti e gli operatori della scuola: mettiamo per una volta da parte la solita poesia per la festa del papà e il classico e, probabilmente obsoleto, lavoretto con le mollette e facciamo iniziative volte a stimolare i nostri figli alla riflessione sull’impegno e il sacrificio di don Diana e di tutti quanti si sono sacrificati per il valore della legalità!
Solo così possiamo veramente crescere nella cultura della legalità, praticandola e tenendone sempre in mente il valore: credo che i papà ne saranno ugualmente contenti!
giovedì 8 marzo 2012
8 marzo ovvero la sagra della demagogia
Oggi è l’8 marzo…ogni anno, l’8 marzo è oggetto di miriadi di considerazioni su come realmente dovrebbe essere celebrata questa data…ognuno dice la sua…ognuno strumentalizza questa celebrazione per suo uso e consumo… i commercianti per vendere gadget e mimose, i politici per accattivarsi le simpatie femminili, i comici per fare audience, gli amministratori per consolidare il consenso delle proprie elettrici, gli uomini, in generale, per fare ironia sulle donne o, molto più semplicemente, per provarci con qualcuna in maniera carina…
Sinceramente, dopo lo scorso anno, quando ho visto fallire miseramente l’evento creato dal Comitato Beneventano del “Se non ora quando” a causa delle mire ed ambizioni non politiche bensì molto più meramente di “poltrona” di alcune donne (che quello scopo lo hanno poi raggiunto), ho subito un brutto colpo, dal punto di vista umano e intellettuale e, ancora una volta, mi sono resa conto sulla mia pelle che una cosa sono i valori e le idee e un’altra cosa è incarnarle e portarle avanti senza condizionamenti, politici, sociali o di altra natura.
Oggi è l’8 marzo e questa giornata sarà la solita sagra demagogica (come l’ha definita la cara Cristiana Alicata), oggi ci sarà demagogia a go go, demagogia in tutte le salse, demagogia politica, demagogia sociale, economica e perfino ecclesiale, perché sicuramente anche la Chiesa avrà le sue parole da dire per l’occasione.
E questo gran mix ce lo porteremo appresso anche per qualche giorno visto che ad es, domenica prossima a San Giorgio del Sannio, si siederanno dietro un tavolo a pontificare di donne, economia e società sindaci, assessori, preti, ed onorevoli, insieme, guarda caso, proprio a quelle signore di cui parlavo sopra, quelle donne che, abilmente, oggi hanno ottenuto la loro poltrona e da questa poltrona vengono a raccontare la solita solfa sulle donne che devono riscattarsi e partecipare al cambiamento sociale.
Ma di quale riscatto vanno blaterando? Di quale partecipazione al riscatto sociale?
Riscattarsi significa liberarsi, redimersi da una condizione negativa, e, se permettete, le uniche che dovrebbero spezzare le catene e contribuire veramente al cambiamento sono proprio quelle donne che rimangono costrette in un partito che non cambia e che di nuovo ha solo il nome che copre una vecchia realtà di democristiana memoria, quelle donne che pur di stare al posto dove stanno, accettano una condizione di sudditanza, quelle donne mute nei luoghi dove si decide e parolaie nei convegni e nelle conferenze inutili, quelle donne che parlano soltanto ma quando è il momento del fare sono relegate in un angolino dal potere di quegli uomini cui non si sanno opporre, quelle donne che non sono capaci di liberarsi e che continuano a vivere ed agire nel limbo del “non cambiare mai la via vecchia per la nuova perché sai quello che lasci e non sai quello che trovi”….
Queste donne cadute in trappola ed incapaci di liberarsi non sono certo un modello da imitare, soprattutto a San Giorgio del Sannio, terra di nessuno, terra di conquista politica, terra di speculazioni, terra senza né più fiori né cortesia…
Io non faccio parte di questa categoria, e come me, fortunatamente, molte altre donne…ecco perché questo 8 marzo è nostro, un 8 marzo di ricordo e di sprone, un 8 marzo di azione, e, senza ombra di dubbio, ce lo meritiamo tutto!
Sinceramente, dopo lo scorso anno, quando ho visto fallire miseramente l’evento creato dal Comitato Beneventano del “Se non ora quando” a causa delle mire ed ambizioni non politiche bensì molto più meramente di “poltrona” di alcune donne (che quello scopo lo hanno poi raggiunto), ho subito un brutto colpo, dal punto di vista umano e intellettuale e, ancora una volta, mi sono resa conto sulla mia pelle che una cosa sono i valori e le idee e un’altra cosa è incarnarle e portarle avanti senza condizionamenti, politici, sociali o di altra natura.
Oggi è l’8 marzo e questa giornata sarà la solita sagra demagogica (come l’ha definita la cara Cristiana Alicata), oggi ci sarà demagogia a go go, demagogia in tutte le salse, demagogia politica, demagogia sociale, economica e perfino ecclesiale, perché sicuramente anche la Chiesa avrà le sue parole da dire per l’occasione.
E questo gran mix ce lo porteremo appresso anche per qualche giorno visto che ad es, domenica prossima a San Giorgio del Sannio, si siederanno dietro un tavolo a pontificare di donne, economia e società sindaci, assessori, preti, ed onorevoli, insieme, guarda caso, proprio a quelle signore di cui parlavo sopra, quelle donne che, abilmente, oggi hanno ottenuto la loro poltrona e da questa poltrona vengono a raccontare la solita solfa sulle donne che devono riscattarsi e partecipare al cambiamento sociale.
Ma di quale riscatto vanno blaterando? Di quale partecipazione al riscatto sociale?
Riscattarsi significa liberarsi, redimersi da una condizione negativa, e, se permettete, le uniche che dovrebbero spezzare le catene e contribuire veramente al cambiamento sono proprio quelle donne che rimangono costrette in un partito che non cambia e che di nuovo ha solo il nome che copre una vecchia realtà di democristiana memoria, quelle donne che pur di stare al posto dove stanno, accettano una condizione di sudditanza, quelle donne mute nei luoghi dove si decide e parolaie nei convegni e nelle conferenze inutili, quelle donne che parlano soltanto ma quando è il momento del fare sono relegate in un angolino dal potere di quegli uomini cui non si sanno opporre, quelle donne che non sono capaci di liberarsi e che continuano a vivere ed agire nel limbo del “non cambiare mai la via vecchia per la nuova perché sai quello che lasci e non sai quello che trovi”….
Queste donne cadute in trappola ed incapaci di liberarsi non sono certo un modello da imitare, soprattutto a San Giorgio del Sannio, terra di nessuno, terra di conquista politica, terra di speculazioni, terra senza né più fiori né cortesia…
Io non faccio parte di questa categoria, e come me, fortunatamente, molte altre donne…ecco perché questo 8 marzo è nostro, un 8 marzo di ricordo e di sprone, un 8 marzo di azione, e, senza ombra di dubbio, ce lo meritiamo tutto!
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martedì 6 marzo 2012
Questo 8 marzo è tutto nostro!!!
Ieri sera l’amico e sostenitore Pasquale Casciello ci ha raccontato un episodio della recente storia di San Giorgio del Sannio che è bello condividere in questi giorni che ci avvicinano all’ 8 marzo: ci ha raccontato delle “tabacchine”, le operaie dell’Agenzia Tabacchi, e di una in particolare, una donna sangiorgese, che insieme ad altre quattro o cinque, diciamo così, “colleghe” di Apice e San Nazzaro, riuscì a portare avanti strenuamente le prime rivendicazioni salariali e normative all’interno del tabacchificio, mettendosi alla testa anche degli operai maschi e contribuendo, a partire dalla nostra cittadina, alla costruzione di una classe operaia organizzata in un settore durissimo, per quanto precario e stagionale, quale quello del tabacco.
Questa donna, queste donne, non miravano certo ad ottenere privilegi personali o posti di particolare potere o ruoli di spicco nel sindacato: queste operaie si trovavano, negli anni tra il 1950 e il 1960, a lavorare in un settore in cui da un lato le operaie conservavano il ruolo e l'identità di manodopera stagionale ma dall’altro si avviavano a diventare classe operaia organizzata, e in questa congiuntura erano donne che si impegnavano a costruire quotidianamente una sorta di welfare aziendale ante litteram, legato in particolare alla presenza di lavoratrici madri.
Questa donna, queste donne, iniziavano nell’Agenzia Tabacchi di San Giorgio, a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60, un importante percorso personale, di classe, di consapevolezza sociale e di "genere".
E’ vero, dunque, che San Giorgio del Sannio ha avuto momenti della sua storia in cui non è stata il paese di Coppolonia e le protagoniste di questi momenti, vivaddio, erano donne!!!
Queste donne hanno costruito e fanno parte del nostro recente passato e noi le ricordiamo con orgoglio, ma con altrettanto orgoglio rivendichiamo il nostro ruolo attuale di donne sangiorgesi, che, gratuitamente ed esclusivamente per senso civico, sono impegnate nella formazione e nello sviluppo della partecipazione democratica dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, al fin di creare un potere collettivo e condiviso, rivendichiamo il nostro ruolo attuale di donne che non hanno alcun intento di costruirsi una carriera professionale alternativa dismettendo i panni di normali cittadini ed entrando a far parte dell’elite politico-amministrativa locale, bensì intendono essere membri attivi della comunità, donne che lavorano per il bene comune e non per far bene al Comune!
E rivendichiamo con altrettanto orgoglio anche il nostro ruolo di mogli, di madri, di sorelle, di lavoratrici, perché, anche da donne impegnate nella vita democratica del nostro paese, riusciamo a mantenere gli impegni della nostra vita quotidiana, lavoro, famiglia, figli, utilizzando un metodo “a rete” che permette di valorizzare anche il più piccolo contributo concreto di ogni persona.
La comunità che immaginiamo e per la cui costruzione ci impegniamo è fatta di uomini e donne che sono perfettamente consapevoli dell’immenso potenziale di sensibilità ed intelligenza delle donne e che, al di là dei pregiudizi e retaggi culturali, sono consapevoli della necessità di ricreare l’idea di corpo sociale a partire dal rispetto di tutte le sue componenti.
Il femminismo degli anni ’70 ha fallito proprio per la sua idea di voler raggiungere a tutti i costi la parità: noi, invece, crediamo fortemente nell’empatia profonda tra i generi, al di là di tutte le forme di competizione e crediamo sia ormai imprescindibile accelerare il processo di sviluppo e di benessere, cui le donne possono contribuire in maniera straordinaria.
A noi e a tutte le donne che pensano e agiscono come noi vogliamo dedicare questo 8 marzo: e non ci dite che siamo immodeste, ce lo meritiamo!
Questa donna, queste donne, non miravano certo ad ottenere privilegi personali o posti di particolare potere o ruoli di spicco nel sindacato: queste operaie si trovavano, negli anni tra il 1950 e il 1960, a lavorare in un settore in cui da un lato le operaie conservavano il ruolo e l'identità di manodopera stagionale ma dall’altro si avviavano a diventare classe operaia organizzata, e in questa congiuntura erano donne che si impegnavano a costruire quotidianamente una sorta di welfare aziendale ante litteram, legato in particolare alla presenza di lavoratrici madri.
Questa donna, queste donne, iniziavano nell’Agenzia Tabacchi di San Giorgio, a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60, un importante percorso personale, di classe, di consapevolezza sociale e di "genere".
E’ vero, dunque, che San Giorgio del Sannio ha avuto momenti della sua storia in cui non è stata il paese di Coppolonia e le protagoniste di questi momenti, vivaddio, erano donne!!!
Queste donne hanno costruito e fanno parte del nostro recente passato e noi le ricordiamo con orgoglio, ma con altrettanto orgoglio rivendichiamo il nostro ruolo attuale di donne sangiorgesi, che, gratuitamente ed esclusivamente per senso civico, sono impegnate nella formazione e nello sviluppo della partecipazione democratica dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, al fin di creare un potere collettivo e condiviso, rivendichiamo il nostro ruolo attuale di donne che non hanno alcun intento di costruirsi una carriera professionale alternativa dismettendo i panni di normali cittadini ed entrando a far parte dell’elite politico-amministrativa locale, bensì intendono essere membri attivi della comunità, donne che lavorano per il bene comune e non per far bene al Comune!
E rivendichiamo con altrettanto orgoglio anche il nostro ruolo di mogli, di madri, di sorelle, di lavoratrici, perché, anche da donne impegnate nella vita democratica del nostro paese, riusciamo a mantenere gli impegni della nostra vita quotidiana, lavoro, famiglia, figli, utilizzando un metodo “a rete” che permette di valorizzare anche il più piccolo contributo concreto di ogni persona.
La comunità che immaginiamo e per la cui costruzione ci impegniamo è fatta di uomini e donne che sono perfettamente consapevoli dell’immenso potenziale di sensibilità ed intelligenza delle donne e che, al di là dei pregiudizi e retaggi culturali, sono consapevoli della necessità di ricreare l’idea di corpo sociale a partire dal rispetto di tutte le sue componenti.
Il femminismo degli anni ’70 ha fallito proprio per la sua idea di voler raggiungere a tutti i costi la parità: noi, invece, crediamo fortemente nell’empatia profonda tra i generi, al di là di tutte le forme di competizione e crediamo sia ormai imprescindibile accelerare il processo di sviluppo e di benessere, cui le donne possono contribuire in maniera straordinaria.
A noi e a tutte le donne che pensano e agiscono come noi vogliamo dedicare questo 8 marzo: e non ci dite che siamo immodeste, ce lo meritiamo!
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